Orazio Labbate – Lo Scuru

Il sangue, la morte e le voci del passato.

L’origine dei fantasmi che perseguitano una persona per tutta la vita sta spesso nell’infanzia. Il trauma della morte del padre e di inquietanti figure mistiche tormentano Razziddu Buscemi nella sua ultima Thule, in America, e lo riportano al suo paesino sperduto in Sicilia. Labbate usa immagini forti, dove la morte e il sangue predominano, e un linguaggio sperimentale.

Un vecchio vedovo aspetta la morte nella sua casa negli Stati Uniti. Questa è la trama, ridotta all’osso, de Lo Scuru di Orazio Labbate, giovane autore siciliano pubblicato da Tunué. Nell’attesa della fine il vecchio ricorda la sua infanzia e la sua giovinezza, legate soprattutto alla tragica morte in mare del padre. La lingua del romanzo è influenzata dal dialetto come in Bufalino, D’Arrigo e Camilleri (anche se in un altro genere, quest’ultimo).

Bufalino e D’Arrigo a loro volta derivano dal Gruppo ’63 che favorì la riscoperta di Gadda e contribuì alla diffusione di un ritrovato gusto per l’espressionismo linguistico che perdurò fino agli anni ’70. Sicuramente notevole e coraggiosa nell’epoca del global novel facilmente traducibile in tutte le lingue è questa scelta da parte dell’autore e della casa editrice, coraggiosa e rischiosa perché compromette la cognizione dei contenuti da parte del lettore, che può apprezzare più facilmente la poesia della lingua, il ritmo del dialetto, l’espressionismo delle descrizioni. Ma talvolta fa fatica, parlo almeno per me, ad afferrare il senso.

Da Horcynus Orca di D’Arrigo Labbate sembra riprendere in particolare il tema del nostos, con traslazione semantica del mare qui inteso come mare della vita, e l’individuo errante che come mezzo di trasporto non ha una barca bensì il proprio corpo e ovviamente la propria mente, che ruba al mondo delle immagini per poi concatenarle e restituircele a distanza di anni. Quando la morte avverte del suo arrivo dentro la testa scatta il tasto play e le immagini di una vita vengono proiettate, drogate talvolta dai farmaci o dalla vecchiaia. Un po’ per una tendenza all’esistenzialismo tipica dei meridionali, un po’ per il gusto barocco dell’autore e per l’ingombrante e per niente rassicurante presenza della religione nell’infanzia del protagonista, tutto il romanzo è permeato dal sentimento della morte e da immagini demoniache. Un altro esempio di religione opprimente si trova, in un contesto geometricamente opposto, ne La miglior vita di Tomizza.

Razziddu Buscemi è figlio bastardo di una relazione non confermata dalla Chiesa e nipote di una strega che lo tormenta con l’effigie del Signore dei Puci. Sembra maledetto per tutta la vita, ma arriva alla vecchiaia, con il passaggio dall’infanzia alla giovinezza segnato narratologicamente dal cambio di focalizzazione. Non viene raccontato però il momento dell’abbandono della terra natia per raggiungere gli Stati Uniti, né i particolari della nuova vita. Tutta la prima parte dell’esistenza del protagonista è stata segnata dal pensiero della morte in generale e dalla morte del padre in particolare, morte che forse non è stata solo un incidente.

Figure inquietanti di preti, streghe e stregoni lo perseguitano, anche quando trova la felicità nel corpo e negli occhi di una donna da amare. Il sangue e la carne sono elementi ricorrenti nel romanzo, intriso di simboli e allegorie. L’uso del dialetto ha funzione espressionistica, così come le immagini forti. Tutto ciò rende il libro più simile a un’esperienza estetica, a una performance di Marina Abramovich o a alla proiezione di videoarte che a un messaggio, a una trama, a una storia, a una vicenda da leggere, da recepire, da ascoltare, da ricordare. Soprattutto per chi non conosce il dialetto siciliano, ma del resto è lo stesso tipo di rischio che si corre leggendo Gadda, anche se forse in quel caso il suo stile è più facile da decifrare, da codificare, da memorizzare, se si conoscono le regole. Dietro all’espressionismo delle parole di Gadda c’è un motivo, un disegno, una filosofia.

Ne Lo Scuru invece le parti che non sono in dialetto seguono un andamento onirico, surreale e d’altro canto il vernacolo siculo non funziona come gradiente di realtà, ma contribuisce all’effetto straniante. Non sembra la lingua madre, la lingua degli affetti, sembra un’antica lingua primordiale, severa, misteriosa, oscura, asfissiante. Il romanzo non sembra completo, sarebbe interessante conoscere la vita di Razziddu negli U.S.A., ma d’altro canto questo è più che altro il racconto di un’intima confessione e di un confronto con il proprio essere primordiale. Il sangue ci perseguita, per quanto lontano possiamo scappare. Siamo di fronte all’opera prima di un giovane autore e bisogna tenerne conto.

Come già detto prima, è coraggioso sia da parte sua che di quella della casa editrice proporre un tale tipo di scrittura, più evocativa che narrativa, al giorno d’oggi. E quindi bisogna pur riconoscere di essere di fronte a un libro interessante.

 

Orazio Labbate, Lo Scuru, Tunué ,2015, 136 p.

 

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